Milano 23 maggio 2019
Riflettendo sui punti da isolare per la presentazione di questo progetto, che inizierà sul territorio della Città Metropolitana di Milano a partire dal 6 giugno, in questa sede alle ore 11, mi sono trovato in difficoltà.
Non riuscivo però a definire, a circoscrivere questa difficoltà. Pensavo a come rendere e spiegare, come funziona e perché funziona il GMF. Mi approcciavo a questo compito cercando di usare la mia conoscenza, il mio bagaglio teorico clinico per tradurre, rileggere e proporre una mia lettura di questo strumento di cura. Cercavo di arricchirlo d’interpretazioni di senso e cercavo di ridurlo a un’essenza di senso. Capivo che stavo operando una forzatura significante su un oggetto che si ribellava a non essere riconosciuto come soggetto a se stante, con le sue luci e le sue opacità. Di colpo quindi realizzavo, come accade in una mente infantile in cui la realtà viene percepita sincreticamente, nel suo insieme, complessivamente, che la prima cosa da dire sul GMF è che è una “cosa semplice”.
Accedendo al GMF dalla porta della semplicità, si può descrivere come al suo interno, cose complicate e complesse quali il “parlarsi” possa prendere strade facili e spontanee benché riguardi argomenti complicati come i legami tra le persone. Nel GMF ciò accade semplicemente perché è un dispositivo in cui la parola non è lasciata cadere, che è ascoltata e per ciò acquista pienezza davanti all’Altro. Ciò lo dico con convinzione perché l’ho visto accadere e perché lo dicono le testimonianze che abbiamo raccolto nella nostra esposizione. Infatti la matrice di quanto seguirà è stata costruita a partire dal mettere insieme le esperienze di pazienti e operatori per spiegare concretamente e teoricamente il GMF. Questo modo di procedere è in linea con il presupposto che nell’ambito delle scienze psicologiche le speculazioni teoriche seguono l’osservazione clinica e non la precedono.
PER CAPIRE LA TEORIA UN PO’ DI STORIA
Quando abbiamo pensato a questa giornata e alla presentazione ci è venuto da fare quello che Badaracco fece negli anni 60 in Argentina. Ovvero metterci attorno a un tavolo, chiamare i pazienti e farci spiegare il loro punto di vista, che cosa è per loro. Questa operazione così spontanea oggi, è il risultato di un cambiamento fondamentale nella storia della psichiatria: il passaggio da custodire, a curare. Il principio della cura rispetto a quello della contenzione. Un processo che in italia è avvenuto negli ultimi cinquantanni e che ha reso possibile il passaggio da una visione del malato fondata sull’esclusione e l’internamento, ad una prospettiva fondata sull’inclusione, sulla costruzione e sulla restituzione di significati condivisi (1978 legge 180 Basaglia). Un passaggio che ha comportato la necessità di nuove e diverse scelte di cura. Nuove e diverse responsabilità.
Tra le esperienze di cura significative in questo panorama spicca la psicoanalisi familiare di Jorge Garcia Badaracco, psichiatra e psicoanalista argentino. Il suo lavoro nasceva dalla necessità di trasformare una realtà che tendeva a cronicizzare la malattia mentale in un contesto che offrisse delle opportunità per promuovere processi terapeutici, opponendosi all’inevitabile cronicizzazione delle malattie mentali gravi. Erano gli anni sessanta. Era l’Argentina, Ospedale Psichiatrico maschile di Buenos Aires. E’ stato grazie al dr. Andrea Narracci che la psicoanalisi multifamiliare di Badaracco ha iniziato a diffondersi in Italia e grazie al prof. Giovanni Giusto, fondatore delle Comunità del Gruppo Redancia, che essa è giunta a noi.
Garcia Badaracco ha destrutturato e riorganizzato il sistema: reparti pensati come luogo dello stare, si trasformano in ambienti in cui i pazienti e i loro possibili miglioramenti divengono il primo pensiero. Degli operatori. Medici, psicologi, assistenti sociali e infermieri a cui è stato chiesto di osservare. Da nuovo. Così facendo, l’autore è riuscito a creare un’esperienza nuova per l’Ospedale Psichiatrico nel quale lavorava, finendo per trasformare un reparto psichiatrico tradizionale in una comunità terapeutica, ottenendo nei pazienti miglioramenti. Miglioramenti che andavano nella direzione di un recupero del senso della vita, ma con il pericolo, una volta a casa, di ritrovare quelle modalità relazionali, quelle risposte da parte di un sistema familiare che potessero far stare male di nuovo. Fu necessario a questo punto riconsiderare il momento delle dimissioni, ripensarlo come parte della cura, preparare il rientro a casa dei pazienti. Evitare un nuovo peggioramento delle loro condizioni una volta dimessi.
Tutto questo portò Jorge Garcia Badaracco a invitare anche i familiari dei pazienti alla riunione giornaliera a cui partecipavano i pazienti e il personale del reparto. Diede così inizio a un gruppo che, in omaggio alla sua formazione e ai concetti a cui faceva riferimento, definì “gruppo di psicoanalisi multifamiliare”.
Un’iniziativa piuttosto provocatoria in quel momento, nuova e difficile da capire. E giudicata strana. Incontrare e parlare con i pazienti, ascoltarli, pensarli attivamente nel percorso di cura, chiedere come abbiamo fatto oggi di essere presenti, di dire la loro. Una scelta che oggi si configura come un modo nuovo di curare i pazienti e le loro famiglie; un nuovo contesto di cura per gli operatori che lavorano nel campo della salute mentale e allo stesso tempo, anche, un modo per formarsi. Per formare ad un ascolto che non riguarda soltanto l’altro ma anche se stesso, nella relazione e nell’incontro con l’altro.
“IL GMF PERMETTE DI METTERSI NELLE CONDIZIONI DI ASCOLTARE”
La frase sembra ricondurre a un setting in cui la comunicazione è facilitata. Precisamente chi ha formulato questa affermazione sembra porre l’accento non tanto su un invito a esprimersi, ma a voler comprendere.
“NEL GMF, NON SO PERCHE’, MA STO MEGLIO AD ASCOLTARE LE STORIE DEGLI ALTRI, PERCHE’ I TUOI PROBLEMI LI SENTI MENO PESANTI”
Si esperisce non essere i soli a provare certi stati interni e ciò stempera vissuti di solitudine e autoemarginazione.
Questo ci permette di dirci finalmente e semplicemente cosa è il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare.
E’ un gruppo di persone, di cui fanno parte un certo numero di pazienti psichiatrici, i loro genitori e altri loro familiari e gli operatori.
Si caratterizza per la possibilità di instaurare una situazione in cui genitori e pazienti appartenenti a più nuclei familiari e operatori possano partecipare a pieno titolo ad una conversazione in cui ognuno può esprimere quello che pensa, la parola dunque.
Soltanto due le consegne: che le parole di tutti vengano ascoltate e accolte. Non giudicate o criticate e che lo spazio di ogni intervento venga rispettato e coordinato dal conduttore attraverso la prenotazione per alzata di mano.
Non esiste un contratto terapeutico, ognuno può partecipare secondo i propri tempi e le proprie modalità anche se la nostra esperienza ci porta a suggerire di parlare di sé, partire dai propri vissuti. E suggerire la partecipazione dell’intero nucleo familiare. Non viene richiesto di avvisare in caso di assenza, ma il senso di appartenenza viene poi trasmesso con comunicazioni spontanee tra familiari circa l’impossibilità di esservi. Nella sua struttura il gruppo prevede le porte aperte sia in senso metaforico che concreto: ogni partecipante può entrare ed uscire, collocarsi al centro o al suo confine. Parlare o soltanto ascoltare.
“NEL GMF NON CI SI SENTE OBBLIGATI A PARLARE, SI PUO’ SCEGLIERE SE TENERE LE COSE PER SE’ O CONDIVIDERLE”
Questa frase sembra rimandare all’esperire una sensazione di libertà. Un libero arbitrio nella scelta della parola o del silenzio. Dell’interno o dell’esterno. Del tenere o lasciare. Del rimanere o staccarsi.
“IL GMF SERVE A TROVARE SOLUZIONI A VISSUTI DI COERCIZIONE”
A un approfondimento chiesto in merito a questa frase, emerge una ricerca di libertà a vissuti di imprigionamento, di obbligo che riconducono a esperienze di un Altro che ha fatto sentire la persona oggetto e non soggetto relazione.
“ALLE PERSONE CHE SI SENTONO “STAMPATE” DALLA MALATTIA MENTALE. IL GMF MOSTRA CHE ANCHE GLI ALTRI SONO MALATI”
Il soggetto può permettersi di non identificarsi completamente con la sua malattia perché esperendo che questa può esprimersi in maniera plurima, fa emergere anche dentro la malattia la sua singolarità. Una singolarità soggettiva che oltrepassa la malattia.
“IL GMF SERVE PER LA CONOSCENZA, L’AIUTO, LA COOPERAZIONE TRA FIGLI E GENITORI”
Questa frase è molto importante, significativa e anche suggestiva in quanto, sebbene ve la propongo adesso, è l’ultima frase raccolta dai pazienti per descrivere il GMF. Come in un processo primario di associazioni libere, si giunge in modo operativo e concreto alla possibilità nel GMF di rivedere i rapporti tra congiunti, in particolare tra figli e genitori.
L’ipotesi centrale di Badaracco è che tra i membri di una famiglia di un paziente si creino delle dipendenze patologiche e patogene, per cui le persone coinvolte non hanno più un limite l’una nei confronti dell’altra. Genitore e figlio rimangono bloccati nel loro processo di crescita. In alcune condizioni psicopatologiche i livelli generazionali diversi si confondono: ad esempio, nella simbiosi non c’è più un padre o una madre e un figlio o una figlia, ci sono due persone che formano un tutt’uno e che sono in continua lotta per imporre il proprio predominio l’uno sull’altro. Questo emerge nei dialoghi: i genitori che spesso rispondono al posto del figlio, che gli tolgono la parola, che lo contraddicono. O i figli che hanno al tendenza a parlare ed ascoltare soltanto se stessi. Genitori e figli che non riescono a vedere l’altro come altro da sé, e che tendono perciò a desiderare per tutta la vita che i figli e i genitori siano come loro ritengono che debbano essere, visto che essi pensano di sapere meglio dei figli e dei genitori che cosa essi debbano sentire prima ancora che pensare. Dipendenze patologiche o modalità patologiche di stare in relazione che non interessano soltanto i pazienti psicotici e le loro famiglie ma anche altri nuclei familiari in cui la sofferenza assume altre forme.
Il rispetto per ognuno dei partecipanti è il primo obiettivo da raggiungere e riattiva la possibilità di ascoltare l’altro, che era andata perduta in relazione all’instaurarsi della situazione simbiotica. Caratterizzata come abbiamo detto dalla convinzione di sapere meglio dell’altro che cosa l’altro sta per dire e quindi dalla tendenza a precederlo, a non ascoltarlo.
Nessuno può arrogarsi il diritto di pretendere di sapere che cosa sta provando l’altro, meglio di lui. Né può pretendere di sapere meglio dell’altro quello che l’altro deve sentire e o pensare.
Tutto questo permette a ciascuno di sviluppare la competenza di avere una propria opinione. E spesso viene resa possibile nello scambio tra genitori e figli appartenenti a nuclei familiari differenti. Spesso è possibile soltanto in assenza dei propri genitori, in assenza di quella presenza dell’altro in noi: mi viene in mente un nostro paziente che prende la parola e si permette di raccontarsi soltanto quando non ci sono i genitori. perché, viceversa, i genitori parlano al suo posto. Non lasciandogli spazio.
Per tutto questo è fondamentale la regola della prenotazione, del rispettare l’intervento degli altri. Che la parola di ciascuno è importante e che non bisogna interrompere. L’importanza di ascoltare l’altro.
Con il tempo, l’effetto del gruppo è che ciascuno si riprenda il proprio, permettendo una sorta di ricostruzione di confini tra una persona e l’altra. La definizione che Badaracco utilizza è “gli altri in noi” designando la difficoltà di essere noi stessi. L’effetto terapeutico del gruppo è appunto quello di consentire alle persone di rientrare in contatto con le parti di sé. Far rendere conto i membri di una coppia simbiotica di non essere tutto un pezzo.
“ALL’INTERNO DEL GMF, SULLA PATOLOGIA NON SI HA MOLTO DA DIRE, SI PUO’ AUMENTARE LA COSCIENZA”
La frase sembrerebbe suggerire che il GMF permette di prendere meglio coscienza di malattia senza parlare molto di essa. Cioè nel GMF accade che si parli di stare “a lato” degli aspetti patologici con effetto di una sorta di spontanea delimitazione di questi. La circoscrizione della malattia, per differenza, potrebbe quindi portare a mettere in luce quegli aspetti non malati, sani.
Focalizzando l’attenzione sulla necessità di ricostituire dei confini tra sé e l’altro, si giunge ad intravedere di nuovo o per la prima volta la virtualità sana presente nelle persone: il modo in cui avrebbero potuto e voluto essere e non sono mai state. Almeno fino a questo momento.
“NEL GMF SI CONDIVIDONO COSE SPAVENTOSE”
Sembra che la realtà del soggetto, ma anche il reale del soggetto, possa venire spalmato sulle menti coinvolte nel GMF.
In relazione alla particolare composizione del gruppo stesso, nel quale sono presenti genitori, figli, fratelli/sorelle, operatori, si verifica una situazione unica che tecnicamente viene definita transfert multipli. Cos’è un transfert? Lo voglio dire in parole piuttosto semplici: si tratta di vivere nel qui ed ora sentimenti e vissuti che ci riconducono a relazioni del passato. Nel gruppo succede questo: la presenza di fratelli, sorelle, madri, padri, amici fa vivere nella propria o nell’altrui storia quei sentimenti…spezzettati e quindi meno intesti. Meno incalzanti, esplosivi. La presenza del gruppo rende quindi possibile quello che nella relazione a due non lo è: sentimenti esplosivi, quando si è troppo vicini, possono essere vissuti, provati nelle storie degli altri. possono essere rappresentate, pensate. Ricordate. Il gruppo diventa un po’ “il terzo” che permette di creare un po’ di distanza, che permette di guardarsi da fuori. Quello che si vive è meno carico emotivamente. Può essere pensato, rappresentato. Grazie alla condivisione e al rispecchiamento dei propri vissuti e delle proprie storie familiari si cerca e si riesce a modulare i propri affetti, ci si identifica nelle storie degli altri, ma allo stesso tempo si colgono differenze. Si vedono negli altri le proprie relazioni. Ci si individua. L’ascolto delle storie degli altri, può rendere pensabile e ripensabile la propria. Si può iniziare a riflettere su come imparare a non ripetere acriticamente all’infinito i propri errori.
Tutto questo porta le menti dei componenti a funzionare come le parti di un’unica grande mente, la mente ampliada: pareri diversi, espressi da persone diverse possono coesistere all’interno di un ragionamento comune, a cui ognuno dei presenti fornisce il proprio contributo per capire meglio come stanno le cose e non per prevalere l’uno sull’altro. pazienti e genitori possono finalmente partecipare congiuntamente alla discussione in cui ognuno sente che non è tanto importante pretendere di avere ragione ma essere sicuro di essere ascoltato e rispettato per quello che si dice.
E lo stesso per gli operatori: una ridistribuzione di competenze per cui ciascuno operatori, pazienti e famigliari partecipano tutti alla discussione. Alla costruzione di un significato. Dove la competenza di ciascuno, in egual misura tende alla comprensione. E contribuisce ad essa.
Perché un progetto per il territorio. Da Mente ampliada a mente urbana.
Una mente ampliada ovvero una comunità al lavoro per capire e cambiare: da questa esperienza siamo partiti perché volevamo che l’esperienza fatta in comunità potesse essere estesa ad una più ampia rete in cui promuovere pensabilità e significati condivisi e allo stesso tempo promuovere il sentimento di appartenenza, di condivisione, sentirsi meno soli. Una mente urbana in grado contenere e rendere pensabile un’emotività troppo spesso isolata, troppo intensa e per questo impossibile da gestire.